[Racconto per il concorso blusubianco. I diritti sono ceduti alla Muller O_O]
C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina. Si vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attaccapanni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè. Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare a meno di sorridere. Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca dell’ingessatura.
[incipit comune]
Numeri. I piccoli segni distratti sbavati da inchiostro nero si susseguono uno dopo l’altro come brevi note musicali, suonate con le dita sui tasti, violentemente, fino a sciogliersi in sangue.
0, 6, 13, 19, 23, 42.
Li ripeto nella mia mente. Cerchi generati dalla parte più interna del mio cervello si espandono vibrando nell’aria con rumore ermetico. Li sento solo io. Un sottile strato di silenzio si interpone tra noi. Evapora all’improvviso con un suo:
“Come stai?”
Come sto? Psicofarmaci quasi finiti. Scatole vuote sul pavimento. Mio fratello si rifiuta di prescrivermene altri. Stamattina ho dovuto mangiare agrumi. Tanti agrumi. Dicono che aumentino l’effetto. Sul serio? Non lo so, l’ho letto. Su qualche trafiletto di una stupida rivista medica. Il postino continua a portarmela, e io continuo ad urlargli che non sono abbonato. Prima o poi lo ammazzerò. Prima o poi.
“ Benissimo. E tu?”
Sorride. E come non può? Vita perfetta. Famiglia perfetta. La moglie, sempre con i guanti da cucina a sfornare crostate di fragole. Figli laureati, amicizie giuste, una macchina nuova ogni sei mesi. Un lavoro da invidiare, in fondo non fa un cavolo; non fa un cavolo. Sono sempre io che mi occupo di tutto. Sistemo i progetti degli altri incompetenti. Stupidi incompetenti, i miei colleghi. Ogni volta lui mi dice che i miei sono orrendi e che vanno modificati. Ogni volta li ritrovo nel suo book, uguali, anche con lo stesso colore del rendering.
“ Sto da Dio. Hai presente Viola? La tipa dell’intervista?”
Viola, la tipa dell’intervista. Occhi scuri, capelli liscissimi. Seta che vorrei accarezzare con le mani, farmi scivolare tra le dita. Sentendo la sensazione di quei sottili fili neri passare sotto le unghie e stridere come corde di violino al contatto. Graffiarmi un po’ mentre uno strato di pelle viene via e l’aria fredda raggela la carne viva. Sì, ho presente Viola.
“ Sì, ho presente Viola.”
“ Ha un tatuaggio sull’inguine. Vuoi sapere che cos’è?”
Denti bianchissimi dietro un sipario di un ghigno sarcastico. Riesco quasi a contarli. Tutto si può contare; tutto. I numeri sono elementi sicuri. Gli occhi sono sempre due, le mani sono sempre due, i piedi. L’amore va sempre fatto in due; da solo non c’è soddisfazione.
“ No.”
“ No?! Come no? Gabriele ma stai bene?”
“ Sì, scusa, ero sovrappensiero. Dicevi?”
“ Viola, ha una farfalla sull’inguine. Che donna!”
Perché? Se fosse stato un delfino? Sarebbe stato diverso? Ecco perché sorrideva poco fa. Felice perché ha tradito. Le sue mani su una preda giovane. E’ felice. Ha paura. Non avere più fascino, ha paura di questo. Quello è il suo numero. Il numero di Viola. Sul gesso. L’ha scritto sul gesso per mostrare di nuovo la sua farfalla. Per farsi richiamare. Lui la richiamerà.
“ Sapessi che è successo! Ma ti racconto dopo, durante la pausa caffè.”
Torno a sedere e lo schermo diventa il mio mondo. Il mouse è il timone per muovermi, la tastiera, pannello di comando. E’ questo il mio mondo. Dove numeri, linee, figure solide combaciano. Ogni linea ha un inizio, ogni linea ha anche una fine. Ogni cosa ha un’asse di simmetria. La simmetria è dividere qualcosa in due parti uguali. Due. Sua moglie non ha più la sua simmetria. Lui l’ha tradita. Ora è una metà di un solido amorfo. Senza forma. Non può più ricongiungersi. Uno, non più due. Le sue minacce, non sono state solo due. Innumerevoli.
Licenziamento. Subordinazione.
Eppure sono il più eccellente. Forse non lo accetta, forse. Licenziamento. Me lo dice da sei mesi. Colpa delle medicine. Ha scoperto che in bagno tengo le medicine. Farabutto. Innumerevoli volte mi ha spiato mentre bevevo l’acqua che di getto usciva dal rubinetto. Con le mani la prendevo e scivolava dentro la mia bocca; bevevo e la ingoiavo.
La pillola.
Le cose vanno sempre in coppia. Non scoprirà mai chi guidava la macchina. La macchina che l’ha portato fuori strada. Sorpasso ma non mi allargo, anzi. Spingo con l’acceleratore e devio verso di lui. Non può riconoscermi, ho fregato una di quelle mascherine mediche di mio fratello. Non se ne è accorto che ne manca qualcuna. Non se ne è accorto che guidavo io. Osservo dallo specchietto lui sulla sua amata moto cedere all’attrito. Come se non ci fosse gravità, cade. Riesco a vedere come tutto il peso si concentri sul braccio. Sul braccio. Non si muove più.
“Pausa caffè!”
Mi fa cenno di seguirlo, e io sono già dietro di lui.
“ No, saliamo al piano superiore, il caffè di questa macchinetta sa di plastica.”
Ascensore che si apre, entriamo. Le porte grigie metalliche dell’ascensore, si chiudono.
“ Mi ha anche lasciato il numero, vedi?”
“ Come lo spieghi a tua moglie?”
“Inventerò qualcosa.”
Si morde le labbra, una sottile pellicina si rompe. Tiro aria dalle narici, riesco a sentire l’odore del sangue sulla sua bocca. Se lo lecca via con la lingua.
L’ascensore si apre.
Due. Ogni cosa ha la sua simmetria. Qualche metro, macchinetta.
“ Quanto zucchero, Gabriele?”
“ Due.”
“Ti vedo strano. Ti ripeto per l’ennesima volta che puoi prenderti una pausa.”
Menti. Vuoi licenziarmi, farabutto.
“ No, sto bene. Sono solo in pensiero per il mio gatto rosso che è al veterinario.”
Mai andato da un veterinario. Non ho un gatto rosso. Mi cede il caffè e lo prendo con la mano sinistra. Il calore attraversa la plastica. Il bicchiere sembra quasi scomparire, in mano ho liquido rovente. Riesco a resistere. Anche il suo è pronto. Il suo caffè.
Due caffè.
Si gira e mi guarda, chiudo gli occhi. Li riapro, senza pensarci. Gli getto il caffè rovente sulla faccia. Il suo viso abbronzato contro quel liquido caldissimo e la pelle si arrossisce, le gocce di caffè violentano gli strati di pelle nuda. Gli occhi stretti in una smorfia di dolore. Mi getto su di lui, si divincola ma non ce la fa, il farabutto. Vessato dal primo incidente, un braccio fuori uso.
Due. Ogni cosa ha la sua simmetria.
Tutta la forza nelle mie mani. Qualche secondo per farlo, ed eccolo qui, schiacciato da quella pesantissima macchinetta. Il suo corpo sembra la parte asimmetrica di un volume amorfo. Non respira più.
Ogni cosa ha la sua simmetria. Due.
Apro la finestra. Vento che mi accarezza la pelle, freddo. Mi isola dal resto del mondo. Mi da forza. Tutto questo deve avere una simmetria. Metto i piedi sulla base della finestra. Mi getto giù.
Volare.
Questo sì che è eccitante. Altro che farfalla di Viola. Io volo davvero. Sento scorrere gli atomi d’aria inesorabilmente verso l’alto. Vedo il mondo diventare sempre più grande e avvicinarsi rapidamente verso di me. Poi non sento più nulla, solo un pesantissimo strato di asfalto che sbatte contro il mio corpo aprendomi la pelle, ferendomi completamente.
Poi, più nulla.
0, 6, 13, 19, 23, 42.
Li ripeto nella mia mente. Cerchi generati dalla parte più interna del mio cervello si espandono vibrando nell’aria con rumore ermetico. Li sento solo io. Un sottile strato di silenzio si interpone tra noi. Evapora all’improvviso con un suo:
“Come stai?”
Come sto? Psicofarmaci quasi finiti. Scatole vuote sul pavimento. Mio fratello si rifiuta di prescrivermene altri. Stamattina ho dovuto mangiare agrumi. Tanti agrumi. Dicono che aumentino l’effetto. Sul serio? Non lo so, l’ho letto. Su qualche trafiletto di una stupida rivista medica. Il postino continua a portarmela, e io continuo ad urlargli che non sono abbonato. Prima o poi lo ammazzerò. Prima o poi.
“ Benissimo. E tu?”
Sorride. E come non può? Vita perfetta. Famiglia perfetta. La moglie, sempre con i guanti da cucina a sfornare crostate di fragole. Figli laureati, amicizie giuste, una macchina nuova ogni sei mesi. Un lavoro da invidiare, in fondo non fa un cavolo; non fa un cavolo. Sono sempre io che mi occupo di tutto. Sistemo i progetti degli altri incompetenti. Stupidi incompetenti, i miei colleghi. Ogni volta lui mi dice che i miei sono orrendi e che vanno modificati. Ogni volta li ritrovo nel suo book, uguali, anche con lo stesso colore del rendering.
“ Sto da Dio. Hai presente Viola? La tipa dell’intervista?”
Viola, la tipa dell’intervista. Occhi scuri, capelli liscissimi. Seta che vorrei accarezzare con le mani, farmi scivolare tra le dita. Sentendo la sensazione di quei sottili fili neri passare sotto le unghie e stridere come corde di violino al contatto. Graffiarmi un po’ mentre uno strato di pelle viene via e l’aria fredda raggela la carne viva. Sì, ho presente Viola.
“ Sì, ho presente Viola.”
“ Ha un tatuaggio sull’inguine. Vuoi sapere che cos’è?”
Denti bianchissimi dietro un sipario di un ghigno sarcastico. Riesco quasi a contarli. Tutto si può contare; tutto. I numeri sono elementi sicuri. Gli occhi sono sempre due, le mani sono sempre due, i piedi. L’amore va sempre fatto in due; da solo non c’è soddisfazione.
“ No.”
“ No?! Come no? Gabriele ma stai bene?”
“ Sì, scusa, ero sovrappensiero. Dicevi?”
“ Viola, ha una farfalla sull’inguine. Che donna!”
Perché? Se fosse stato un delfino? Sarebbe stato diverso? Ecco perché sorrideva poco fa. Felice perché ha tradito. Le sue mani su una preda giovane. E’ felice. Ha paura. Non avere più fascino, ha paura di questo. Quello è il suo numero. Il numero di Viola. Sul gesso. L’ha scritto sul gesso per mostrare di nuovo la sua farfalla. Per farsi richiamare. Lui la richiamerà.
“ Sapessi che è successo! Ma ti racconto dopo, durante la pausa caffè.”
Torno a sedere e lo schermo diventa il mio mondo. Il mouse è il timone per muovermi, la tastiera, pannello di comando. E’ questo il mio mondo. Dove numeri, linee, figure solide combaciano. Ogni linea ha un inizio, ogni linea ha anche una fine. Ogni cosa ha un’asse di simmetria. La simmetria è dividere qualcosa in due parti uguali. Due. Sua moglie non ha più la sua simmetria. Lui l’ha tradita. Ora è una metà di un solido amorfo. Senza forma. Non può più ricongiungersi. Uno, non più due. Le sue minacce, non sono state solo due. Innumerevoli.
Licenziamento. Subordinazione.
Eppure sono il più eccellente. Forse non lo accetta, forse. Licenziamento. Me lo dice da sei mesi. Colpa delle medicine. Ha scoperto che in bagno tengo le medicine. Farabutto. Innumerevoli volte mi ha spiato mentre bevevo l’acqua che di getto usciva dal rubinetto. Con le mani la prendevo e scivolava dentro la mia bocca; bevevo e la ingoiavo.
La pillola.
Le cose vanno sempre in coppia. Non scoprirà mai chi guidava la macchina. La macchina che l’ha portato fuori strada. Sorpasso ma non mi allargo, anzi. Spingo con l’acceleratore e devio verso di lui. Non può riconoscermi, ho fregato una di quelle mascherine mediche di mio fratello. Non se ne è accorto che ne manca qualcuna. Non se ne è accorto che guidavo io. Osservo dallo specchietto lui sulla sua amata moto cedere all’attrito. Come se non ci fosse gravità, cade. Riesco a vedere come tutto il peso si concentri sul braccio. Sul braccio. Non si muove più.
“Pausa caffè!”
Mi fa cenno di seguirlo, e io sono già dietro di lui.
“ No, saliamo al piano superiore, il caffè di questa macchinetta sa di plastica.”
Ascensore che si apre, entriamo. Le porte grigie metalliche dell’ascensore, si chiudono.
“ Mi ha anche lasciato il numero, vedi?”
“ Come lo spieghi a tua moglie?”
“Inventerò qualcosa.”
Si morde le labbra, una sottile pellicina si rompe. Tiro aria dalle narici, riesco a sentire l’odore del sangue sulla sua bocca. Se lo lecca via con la lingua.
L’ascensore si apre.
Due. Ogni cosa ha la sua simmetria. Qualche metro, macchinetta.
“ Quanto zucchero, Gabriele?”
“ Due.”
“Ti vedo strano. Ti ripeto per l’ennesima volta che puoi prenderti una pausa.”
Menti. Vuoi licenziarmi, farabutto.
“ No, sto bene. Sono solo in pensiero per il mio gatto rosso che è al veterinario.”
Mai andato da un veterinario. Non ho un gatto rosso. Mi cede il caffè e lo prendo con la mano sinistra. Il calore attraversa la plastica. Il bicchiere sembra quasi scomparire, in mano ho liquido rovente. Riesco a resistere. Anche il suo è pronto. Il suo caffè.
Due caffè.
Si gira e mi guarda, chiudo gli occhi. Li riapro, senza pensarci. Gli getto il caffè rovente sulla faccia. Il suo viso abbronzato contro quel liquido caldissimo e la pelle si arrossisce, le gocce di caffè violentano gli strati di pelle nuda. Gli occhi stretti in una smorfia di dolore. Mi getto su di lui, si divincola ma non ce la fa, il farabutto. Vessato dal primo incidente, un braccio fuori uso.
Due. Ogni cosa ha la sua simmetria.
Tutta la forza nelle mie mani. Qualche secondo per farlo, ed eccolo qui, schiacciato da quella pesantissima macchinetta. Il suo corpo sembra la parte asimmetrica di un volume amorfo. Non respira più.
Ogni cosa ha la sua simmetria. Due.
Apro la finestra. Vento che mi accarezza la pelle, freddo. Mi isola dal resto del mondo. Mi da forza. Tutto questo deve avere una simmetria. Metto i piedi sulla base della finestra. Mi getto giù.
Volare.
Questo sì che è eccitante. Altro che farfalla di Viola. Io volo davvero. Sento scorrere gli atomi d’aria inesorabilmente verso l’alto. Vedo il mondo diventare sempre più grande e avvicinarsi rapidamente verso di me. Poi non sento più nulla, solo un pesantissimo strato di asfalto che sbatte contro il mio corpo aprendomi la pelle, ferendomi completamente.
Poi, più nulla.
Ma io questo racconto l'ho letto! Non sapevo fosse tuo ;)...quanto ho odiato questo incipit! (beh, veramente un po' tutti XD)
RispondiEliminaBravo, bravo, bravo :)
^^ Ho adorato questo racconto! E lo adoro tutt'ora!
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