8. Incubi




[I fatti qui narrati sono da ritenersi di pura fantasia dell'autore. Non ci assumiamo nessuna responsabilità per eventuali crisi di esistenza, mal di testa o metamorfosi in cavalli, che vi ricordiamo, sono cattive persone. Leggere queste righe iniziali non fa altro che distrarvi dal reale contenuto del racconto, quindi, perchè continui a leggere?]

Sosolochehofame.

Mi sono svegliato tra le tempere e i pennelli incastrati nel mio corpo. Pungono come api nere nell’addome, coltelli freddi tra i buchi del mio vecchio maglione. Non sono solo in questa stanza vuota; non è andata via. Apro gli occhi lentamente – invisibile visione – la mia testa fasciata da un dolore vivo continua a pulsare insistentemente, come uno scroscio di pioggia in estate: non cesserà neanche oggi.

Rosicchio i pennelli – i miei denti assorbono il sapore umido del legno - hanno rubato gocce d’acqua alla mia febbre notturna, o all’acquazzone.

La finestra rotta ha lasciato entrare il vento e alcuni miei ricordi sono sfuggiti. Altri permangono, scritti con l’inchiostro nel mio cervello.

Da quant’è che non mangio?

"Gli incubi non vivono solo di notte. Quelli vero esistono oltre il risveglio, ricordalo quando io non ci sarò più."


Li vedo girare vorticosamente, sulla parete che chiude il mio sguardo – pochi secondi fa erano chiusi nel cupo dolore della mia testa, respiro per non morire. Riesco a distinguerne i colori: il rosso della mia sofferenza, il giallo della fame. Il blu della placida tristezza. Il nero della malattia. Figure sterili rigano la parete bianca, sanguina. La mia stanza disegna con il sangue il mio sogno - si stacca dalla parete e danza.

Danza libero non più intrappolato dal dolore.

Danza allegro privo delle catene della coscienza.

Danza lontano dall’inconscio profondo, fa una giravolta – intrappola atomi di ossigeno malato, li ammala e cade giù.

I miei denti battono per la fame. Non mi sono rimasti che tre pennelli.

Mi alzo nell’anoressia del mio corpo febbricitante e immergo le mani nelle tempere aperte – avverto il freddo distillato del colore – e accarezzo una tela bianca. La tocco con gli indici, sento la trama sfiorare la mia pelle, sussulta al contatto, mi riscalda. Mischio i colori su quel pezzo di tela strappato al volume di questa stanza e ridipingo il mio incubo, ma stavolta lo accarezzo, lo possiedo. Non mi spaventa più.

Malafamerimane.

Accarezzo il mio corpo, il vuoto tra le ossa, ripercorro con le mie mani la linea che solca il mio profilo, sono io la mia tela, e dipingo me stesso. Scorro la tempera sul sottile strato dell’epidermide che si colora, fresca culla della mia rinascita. Voglio volare via oltre la finestra rotta, voglio volare. Immergo la punta del naso nel barattolo – si tinge di blu – provo a non respirare: sono anche io un colore, vorrei immergere tutta la testa e le braccia e le gambe, essere una tela viva, muovermi respirando colore.
Rosicchio il mio ultimo pennello mentre getto gli altri due oltre la finestra rotta. Oggi dovrò pur mangiare. Prenderò i miei quadri e li venderò all’angolo della strada, oppure li mangerò. Mi sfamerò con loro in ogni modo. Afferro la mia tela sotto il braccio – è ancora fresca, ed io sono completamente sporco di blu – e scendo per strada. Nessuno mi guarda negli occhi. E’ tardo mattinata, ormai. Lancio il mio dipinto per aria.

Danza libero non più intrappolato dal dolore.

Danza allegro privo delle catene della coscienza.

Danza lontano dall’inconscio profondo, fa una giravolta – intrappola atomi di ossigeno malato, li ammala e cade giù.

Portami con te. Voglio volare oltre la finestra rotta, voglio volare sul fiume e su questa città, voglio danzare.

1 commento:

  1. Sai che tutta questa danza m'ha fatto venire fame?
    Sai che quasi quasi mangio qualche colore e poi scappo via?
    Sai che credo che il rosso abbia un buon sapore, magari non proprio come il blu, però buono?
    Sai che...sai? Perché tu davvero sai qualcosa? Se lo sai dimmelo, presto! Sbrigati, anzi no: pausa.
    Ho appena assaggiato l'arancio e mi sto leccando le dita!

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