L'Invasione






È ferma, al limite del marciapiede. Scompare e appare tra la gente che le passa accanto. Con una mano mi fa un cenno, capisco che mi ha visto, ma poi la folla la inghiotte e sparisce per sempre.
Bene, non proprio per sempre, solo per qualche secondo, se le raccontassi questo mio pensiero mi direbbe ecco, sei il solito esagerato, è per questo che… E non finirebbe la frase, perché se io ho il brutto vizio di esagerare, di montare tendoni da circo su ogni mia considerazione, allora lei è l’esperta delle frasi non finite, dei periodi lasciati a metà. Quante volte le sue parole sono rimaste sospese nella mia mente, in discorsi che per lei terminavano in modo lapalissiano, ma per me no.
“Armando, è chiaro che tra noi…”
Se ne andò un giorno qualunque, senza finire la frase. E io non finii di cenare, di sistemare i miei vestiti nella valigia che mi ero portato, non finii di fare il bucato di tutte le lenzuola che avevamo trovato in quella vecchia casa in cui avevamo deciso di rifugiarci dai nostri amici e conoscenti che insistentemente si presentavano da noi per chiederci come andassero le cose, lenzuola che non ci sentivamo di buttare né di usare senza un lavaggio repentino. Rimasi in silenzio, aggrovigliato come quei vecchi capi in lavatrice, spensi il telefono, non accesi il computer – credo che non ci fosse neanche la rete internet, ma io non lo sapevo ancora. Sono stato così per un paio di giorni, isolato, senza tv, giornali e quant’altro, come per non sprecare i gesti, come se potessi rivedere lei varcare la soglia un’altra volta, ritornare da me dopo solo un singolo secondo che avevo confuso con un intervallo maggiore.
Per questo non feci nulla.
“Tra noi cosa.” – riuscii a dire, esattamente quarantotto ore dopo. D’improvviso un quadro cadde giù dalla parete – uno di quelli vecchissimi, un paesaggio impolverato – e a me sembrò l’unica risposta plausibile.
Mi avvicino al marciapiede del parcheggio, lei ricompare. Cerca di entrare, mi fa un segno, capisco che la portiera è chiusa, iniziamo già male. Finalmente si siede, è indaffarata con qualcosa nella borsa, vorrei che non guardasse dentro la borsa mentre mi vede per la prima volta dopo anni, vorrei che guardasse me.
“Ciao”, mi dice, - “eccomi qua.”
“Eccoti”, le dico, non riesco ad aggiungere altro, quasi balbetto.
Per tutto il tragitto mi racconta del viaggio in aereo. Quando scendiamo dalla macchina mi dice che il viaggio in macchina non è andato poi così male. Ci perdiamo in questa cosa che ci raccontiamo le cose al passato, i viaggi all’indietro, senza mai parlare di noi, adesso e ora. È un autodifesa montata a tavolino per non cadere giù, per non destare sospetti di come siamo affondati nel dolore dell’assenza. Nello zaino che ho preso dal sedile posteriore ho del cibo incartato, alcune bottiglie d’acqua. Ho preparato tutto ieri sera mettendo il necessario in freezer, ma ho tirato fuori le bottiglie troppo tardi, spero non mi chieda da bere nell’immediato perché al momento non c’è acqua, solo ghiaccio. Deve darmi il tempo di sciogliermi, di sciogliere le parole che ho preparato per lei. E infatti sto zitto e lei capisce, parla da sola, ad alta voce. Nel suo groviglio di frasi non finite, sospese.
“Da quanto non ci venivo, da…”
Le potrei fare il conto preciso, degli anni in cui manca. Persino delle ore, dei secondi, se mi soffermassi un po’. Se non avessi il fiatone in questa passeggiata verso una spiaggia fuorimano, dietro di lei che invece sembra sempre fresca, instancabile. Entriamo nella macchia mediterranea più folta, una stradina minuscola in mezzo alle piante e ai canneti. Lei mi sta davanti e ogni tanto si gira per vedere se sono rimasto indietro per la fatica e non per affetto.
Si sente il mare, da qui, ma non lo vediamo. Lo sento agitarsi da lontano, riconosco i sintomi, il suono delle onde che smuovono la spiaggia cambiandone forma di continuo. Gli arbusti ci coprono la visuale, bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi perché è un nulla a finire per terra, inciampare in qualche ramo caduto.
“Tu stai bene, vero?”
Questo è il secondo tratto riconoscibile, le sue domande retoriche. Le risposte, lei le conosce già. Secondo lei sto bene, adesso, mentre la seguo, sparita da cinque anni senza alcun preavviso e ricomparsa un giorno a caso, dopo un messaggio composto di poche parole, dove mi invitava ad andare a prenderla dall’aeroporto il giorno dopo, come se io non aspettassi proprio quello, come se non facessi nient’altro che attendere, come nelle ore di niente, con quei panni puliti in lavatrice che abbiamo voluto lavare solo per paura di non riconoscerli nostri. Ed è così che cado, come uno scemo, come un bambino. Come cadono i bambini, poi, mi chiedo. Mi sbuccio il ginocchio, sono riuscito a trovare l’unico sasso appuntito in una spiaggia deserta, dopo le falesie. Lei mi prende la mano, io rimango in ginocchio come nella peggiore situazione possibile tra due ex amanti; come per chiederle la mano, un matrimonio che è uno scherzo, un nulla. Lei mi capisce e ride, come una bambina. Com’è che ridono i bambini? Non so rispondere, so solo che la sua risata annebbia la vista e mi accorgo solo adesso che alle sue spalle c’è finalmente il mare.

Arriviamo davanti alla vecchia casa. Tiro fuori le chiavi dallo zaino, lei mi aspetta dietro, in silenzio. Un odore di fresco mi investe e al buio non ci vedo nulla. Cerco l’interruttore con la mano, lo trovo, ma non aziona nulla.
“Forse la centralina…”
Non è attivata, penso. Dov’era?
“È qui fuori, dentro quella cassettina.”
“Hai le chiavi?”
“Tieni.”

Ci mettiamo un po’ per abituarci al buio. Scostiamo le tende dalle finestre. Si siede sullo sgabello e mi guarda. Io tiro fuori tutto l’occorrente e cerco di azionare i fornelli. Per uno strano caso, si accendono. Qualcuno deve venire qui, ogni tanto, sicuramente. Qualcuno che non ha cambiato la serratura e che potrebbe arrivare da un momento all’altro e trovarci come due ladri in questa casa che è stata nostra appena per un giorno e di cui conservo ancora le chiavi.
Prendo i peperoncini e i pomodori. Li sciacquo sotto l’acqua corrente. Lei si riempie il bicchiere di quell’acqua gelida, centellinata. Beve, senza placare la sete.
“Metti le bottiglie nel lavandino, insieme a dell’acqua. Si sciolgono un po’.”
Lo faccio e intanto prendo una casseruola, ci verso un po’ di olio. Ci metto troppo tempo, o troppo poco, perché lei mi guarda in modo insolito.
“Ti sei portato tutto nello zaino, vero?”
E cosa vuoi che gli risponda, la risposta la conosce già.
I peperoncini friggono su un fuoco alto. I pomodori sfrigolano e li schiaccio con un cucchiaio, per farne uscire la polpa. Un odore buono si sparge nella cucina. Lei compare di là, ha trovato delle cartoline sulle mensole, le legge a salti, me le mostra. È un atlante geografico, si perde nei posti in cui è stata da quando non siamo più insieme e me li racconta. Io invidio ogni cosa, ogni sguardo che ha posato altrove senza curarsi di che fine avessi fatto io, senza fregarsene un cazzo del mio dolore.
“Guarda lì”, mi dice. Mi indica fuori.
La torre è poco più avanti, alta, in mezzo alla radura. Me la ricordavo più solida, invece da un lato è praticamente un cumulo di macerie.
“Oh, com’è…” – dice lei. Mentalmente continuo la sua frase.
Distrutta. Decaduta. Fatiscente. Desolata. Ho fatto questo per tutti gli anni del nostro matrimonio, quello vero. Continuavo le sue frasi a metà. E ho perpetuato l’abitudine anche quando è fuggita via, cambiavo il senso delle sue frasi che ricordavo a mio piacimento, costruivo una storia che non era la nostra, mi inventavo l’amore.
Metto i piatti a tavola, facendo scivolare i peperoncini fritti direttamente dalla padella. Apriamo una bottiglia di vino che abbiamo trovato nel mobile sopra il lavello.
“Sono tornata – mi dice – sono tornata perché mi mancavi. Mi mancava quello che eravamo, mi mancava lei.”
“La torre?”
“Anna.”
La vista si offusca. Dall’orizzonte del mare vedo un errore. Un triangolo nero. È una barca, due, poco a poco diventano decine. Hanno dei teli legati agli alberi maestri, sono barche piccole, ma veloci.
“Lei avrebbe voluto che fossimo rimasti insieme.”
Faccio fatica a vedere, ma le barche si avvicinano e si moltiplicano. L’orizzonte ne partorisce sempre più, si avvicinano alla costa.
“Dovremmo accendere un fuoco.” – dico.
“Un fuoco?”
“Per avvisare.”
“Chi?”
Era così che si faceva, me lo hanno raccontato. Il guardiano della Torre accendeva un fuoco sulla propria torre per avvisare le torri vicine dell’arrivo dei pirati. A loro volta, venivano accesi dei fuochi, l’avviso si spargeva in tutta la zona, così da poter avvisare le città dell’invasione. E non è un caso se adesso ho questa visione, centinaia di turchi che scendono dalle loro navi e invadono i nostri confini lungo la costa, così come le sue parole, che mi invadono completamente e non riesco a liberarmene. Voglio essere altrove, appiccare un fuoco sulla mia torre per potermi salvare. Ma sono il guardiano e non ho avuto nessun preavviso, rimango inerme in questa casa a vedere piedi stranieri che calpestano la mia terra, bandiere nere issarsi, le sue parole tramortire dentro di me, che frano e cado a pezzi come è accaduto a questa torre, anni fa.
“Vorrei aver appiccato un fuoco per avvisarci, per dire di coprirci per attutire la caduta, invece no.”
“Non abbiamo avuto il tempo di costruire nessuna torre, se è questo che vuoi dire.”
“Anna non è qui, non c’è bisogno che tu prenda un aereo per venire, per sentirti in diritto di ritornare in una vita che non conosci, lei non è qui e da nessun’altra parte. Lei se n’è andata. L’unica cosa che abbiamo fatto insieme, una figlia, appunto, non esiste. Non siamo stati in grado di prendercene cura, non siamo riusciti a trovare i sintomi di una malattia che l’ha portata via in poco tempo nonostante ce l’avessimo sempre sotto gli occhi. Nonostante fosse sempre tra di noi non siamo riusciti a riconoscere che stava morendo. Ci sono malattie che sono gas nocivi di cui non senti l’odore, ma ti basta accendere una fiamma per avere un’esplosione. Abbiamo capito tutto troppo tardi, anche se avevamo i nostri sguardi fissi su di lei. E ci siamo dimenticati di noi, di ciò che eravamo, ho dimenticato di continuare le tue frasi e non ti ho capito più.”
Ma purtroppo lo penso e basta, non glielo dico. Non ne ho la forza. Sono invaso, depredato. Mi arrendo alla sua invasione.
Le dico appena: “Hai ragione.”
E poi non parlo più.
Il suo cellulare squilla nella borsa. È un tango malinconico che riconosco. Mi prende le mani e si avvicina. Al suono della sua suoneria balliamo goffamente, in modo lento. È il primo momento in cui mi è vicina, vicinissima. Riesco a sentire l’odore della sua pelle – adesso vedo che è un po’ sudata, le mani, almeno. Ma chi la sta chiamando dall’altra parte si stanca subito e la musica del nostro ballo finisce; noi rimaniamo mano nella mano al centro della cucina, senza parole, in un abbraccio indecifrabile.
“Hai presente l’anno scorso, quando ti ho chiamato? Ero in Alaska. Ho trovato questo piccolo bar in mezzo al nulla, in un villaggio con una decina di case al massimo. Mi è venuto in mente quel giorno di tanti anni fa in cui abbiamo passato il nostro primo capodanno insieme, io, te e lei. Abbiamo apparecchiato per due e lei è rimasta accanto a noi, nella culla che avevamo tirato fuori dalla camera da letto. Avevamo preparato tutto alla perfezione, avevamo disdetto ogni appuntamento, spento i telefoni. Abbiamo mangiato con la televisione spenta, ad osservare semplicemente quello che stavamo costruendo. Allora ogni tanto facevamo finta di non vedere come le pareti fossero ancora da aggiustare e i mobili sin troppo vecchi. Ciò che di più bello avevamo fatto era appunto accanto a noi, respirava la nostra stessa aria, era sicura sotto il tetto che le assicuravamo noi. In quel bar mi è venuto in mente tutto e non riuscivo neanche a piangere per il freddo. Ma se ci penso bene, non era il freddo che mi fermava, era più l’assenza di buona parte del ricordo di quell’episodio. Che cosa indossavi tu? Cosa abbiamo bevuto? Abbiamo fatto l’amore, quella notte? Non riuscivo a ricordare niente. Avevo in testa solo noi due e lei. E allora mi sono guardata con gli occhi degli altri, cos’era rimasto di me? Ero una donna sola arrampicata ai confini del mondo senza nessuno accanto. Mi sono sentita disperata, sconfitta. E allora ho provato a chiamarti. Non avevo idea se fosse neanche possibile, una cosa del genere. Ma a quanto pare ha funzionato. Ho sentito la tua voce, ho capito che eri in mezzo ad altre persone, ho fatto in tempo solo a darti i miei migliori auguri. La visione di te in mezzo alla folla mi ha smosso qualcosa, Armando. Ti ho visto vivere tra la gente – o sopravvivere, come me, probabilmente. Poi ho visto me in mezzo a quel niente bianco. E allora ho capito che era inutile continuare a cercare di placare il dolore non fermandomi mai, varcando tutti i confini possibili. Ho capito che dovevo fermarmi, per lenire le ferite. Dovevo smettere di cercare Anna, non era né in Alaska, né in America, da nessuna parte. Non c’era più e io dovevo accettarlo. Ed è per questo che sono tornata a casa, e solo oggi sono riuscita a chiederti di poterti venire a trovare.”
È una confessione completa, senza interruzioni. Non è da lei, non è una cosa che fa solitamente. Per tutto il tempo in cui parla, ha lo sguardo fisso su di me. Non so dove io trovi il coraggio per non abbassare la testa. Nonostante tutto, non sembra che guardi semplicemente nei miei occhi, ma è come se mi vedesse completamente, le sue pupille superassero l’ostacolo della mia carne e finissero dentro di me come risucchiate da un imbuto. Mentre parla, non posso che immaginare intorno a me la fine della sua invasione, mi arrendo al suo ritorno, a decine di bandiere che smettono di sventolare per la fine del vento che arranca sulla spiaggia.
Per il resto, mangiamo senza alcuna fame, lei mi giura che il piatto è buonissimo, ma alla fine lascia la sua porzione quasi intatta. Non laviamo nulla, posate e tegami. Qualcuno verrà e si accorgerà del nostro passaggio, non mi importa. Saremo già lontani.
Il viaggio di ritorno dura troppo poco, in un niente siamo di nuovo all’aeroporto. Adesso mi viene in mente di come sia stata folle a prendere due aerei in un giorno solo per venire qui, per incontrare me. Forse avrei dovuto pensarci prima, sono stato insensibile a non cogliere un segnale. È avvenuto davvero quel ballo, quell’abbraccio? L’ho solo immaginato, come l’approdo dei pirati? Ormai non serve a niente, i giochi sono finiti, le parole riposte nei cassetti, il cibo comune finito nella spazzatura, il ghiaccio sciolto nel lavandino.
Mi rimangono il silenzio e i pezzi delle sue frasi che non conclude mai.
Cerca di aprire la portiera, ma è chiusa. Come se non volessi lasciarla andare. Infine, esce. Mi fa segno di aprire il finestrino.
“Ti voglio bene ancora, mi piacerebbe un giorno…”
“Cosa?” – le chiedo, sicuro di non avere una risposta.
“Ritornare”, mi dice. “Davvero.” E mi affonda.

È ferma, al limite del marciapiede. Scompare e appare tra la gente che le passa accanto. Con una mano mi fa un cenno, capisco che mi ha visto, ma poi la folla la inghiotte e sparisce per sempre.

Stavolta per davvero.





(illustrazione di Giordano Poloni)

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