Una minchiata, proprio

Sì beh cioè sì ok adesso un attimo proprio ora aspetta sì un secondo ok il telefono le sigarette gli accendini arrivo ok accendi
Ci sono. Buongiorno, no, buon pomeriggio, non c’ho mai capito che devo dire dopo le tre. Sono pronto.
Per le domande.
Che cosa?
Ah. Mi pensavo che era una domanda cazzuta, mi pensavo. E invece no. Mi pensavo che in un'intervista mi chiedevano le cose filosofiche, ma invece.
Comunque ora te la racconto questa cosa degli appuntamenti, se proprio lo vuoi sapere. Che non mi pensavo che volevi sapere questa domanda qui, chissà cosa, mi pensavo. La filosofia, mi pensavo.

Stavo in stazione a perdere i treni, ogni tanto vado in stazione e chiedo alla gente:
- Scusa ma è questo il treno per…
 - Sì
-  Ah ok.
- Che io devo andare proprio lì.
- Ah. E salga.
E non ci salgo. Che burlone. E vedi quello sul treno che rimane come uno scemo, manco gli avessi sbranato il cane. E invece no. Non che non salgo e non che non gliel’ho sbranato, il cane, io. Che manco mi piacciono, i cani. Mi piacciono i pistacchi.
E un giorno c’era questa donnina carina piccola con il fazzoletto al collo, che donnina carina, ho pensato, che porta il fazzoletto al collo come quelle dive anni 50. Era sceso da un treno vecchissimo che pareva pure lui degli anni 50. Pareva proprio venuto da lì, con lei sopra.
- Sarebbe bello, le ho detto.
- Scusi?
- Sarebbe bello se lei venisse dagli anni 50.
- E perché mai?
- Perché così potremmo prendere questo treno all’indietro e ci potremmo ritornare.
No, non è vero. Non ho detto questa frase romantica, se n’è rimasta dietro al palato, nascosta e timida; invece ho detto:
- Perché sì.
E se n’è andata. Nella testa c’avevo il sottofondo di qualche film vecchio in bianco e nero, qualcosa con gli addii.
Erano le diciassette e trentaquattro minuti, ho guardato l’orologio e ho detto:
- Ah.

Potessi ritornare negli anni 50; mi sono detto. No, non è vero. Mi sono detto: potessi ritornare a 5 minuti fa e prepararmi cosa dire. E invece no, c’ho questa condanna: sbaglio sempre le cose da dire, sto lì per dire la frase esatta e invece mi scivola dentro e la perdo, come quando da piccolini perdevamo le penne, i palloni, le occasioni, i genitori, i baci. Che a scrivere sono bravissimo, davvero, scrivo dei racconti che fanno ridere proprio, gli amici miei non vedono l’ora di leggere le cose che scrivo, telefono a tutti ogni volta; Ehi, Eugè, vedi che l’ho finita quella poesia, gli dico, E fammela leggere, mi dice, vieni a prenderti un caffè che intanto me la leggo.
Che poi il caffè lo devo pure pagare, ma intanto Eugenio è un cliente mio per quando usciranno i miei trentotto romanzi e se li comprerà.

Comunque niente, ogni giorno alle diciassette e trentaquattro minuti, io sono andato in stazione. Tutto l’inverno, con la pioggia con il vento e con lo sciopero, pure. Che che che ne so io se negli anni 50 c’erano gli scioperi dei treni, magari no, magari sì. Magari. Se c’era lo sciopero la donnina piccolina con il fazzoletto al collo non sarebbe più partita, e sarebbe rimasta in stazione e io le avrei potuto dire…
Niente.
Che cosa le posso, che cosa le posso dire dopo 230 giorni, mannaggia alle cose che scrivo?

E niente, questo è l’unico appuntamento che ho avuto, hai scritto tutto, aspetta che vuoi che ti ripe… ah no, hai scritto, ok, per quale giornale scri… ah non siete un giorna… e allora chi, ah, il cugino di Euge…Ok, digli che dopo mi vado a prendere un caffè, che ho appena scritto una minchiata.

Una minchiata, proprio.

Beppe Giacobbe

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