Istruzioni per Nidi Difficilissimi - Un estratto

 




Con Cecilia non c’era bisogno di molte parole, si incastravano in un modo preciso, come quando poggi una tazza su un piatto di ceramica e lo scontro produce un rumore sordo, di oggetti che si toccano. 

Nonostante tutto, avevano determinato delle regole. C’erano delle stanze in cui si potevano fare delle cose e altre in cui non si potevano fare. Per esempio, Leandro non poteva mettere i piedi sul tavolino mentre guardava la tv, Cecilia non poteva addormentarsi sul divano mentre si facevano le coccole dopo cena. Lui, sempre lui, non doveva lasciare in giro i resti della sua barba maltagliata, doveva eliminarne fino a ogni singolo residuo nello scolo del lavandino. Ogni volta che si sbagliava, l’altro poteva farlo notare rimanendo immobile nel punto in cui la macchina del loro reciproco coesistere si era incagliata - la stasi sembrò ad entrambi correlata ad un senso primordiale di paura, una salvaguardia dal pericolo. Rimanevano fermi per salvarsi, o meglio, per farsi salvare. Capitava spesso che Leandro trovasse Cecilia in piedi su una sedia, poiché lui si era dimenticato che non bisognava mai cenare senza aver posto una tovaglia sul tavolo; allora c’era bisogno di un buon quarto d’ora per portarla fuori da quello stato di immobilità semipermanente e spazzolare via le briciole. Succedeva anche a lui: capitava che rimanesse con il cucchiaio a mezz’aria quando lei si dimenticava il sale nella pasta, e lui restava così, col vuoto tra le fauci a mangiare l’aria. Accadeva poi che dopo aver superato la crisi con una pace dichiarata, riprendessero le cose così come le avevano lasciate, dimenticandosi in quei minuti di niente persino dei motivi delle loro discussioni. Erano come robot malfunzionanti arrivati alla fine della loro carica elettrica.

Adesso nella stessa casa di allora è lunedì mattina e Leandro ricomincia una nuova settimana restando fisso davanti alla finestra aperta della cucina. Non sta solo pregustando il senso di vuoto del suo stomaco dopo una notte di digiuno, non sta solo ammirando l’angolo di città tagliato nella sua finestra – palazzi, palazzi a non finire, un parco lontano, l’immaginazione di una linea d’orizzonte – non sta solo prendendo un respiro a bocca aperta; quello che fa è ricadere nell’immobilità di un suo errore, la caffettiera caduta per terra in un gesto affrettato. Senza Cecilia è lui che deve autopunirsi e rimanere immobile quando sbaglia qualcosa. Deve farlo al posto suo. È in questi momenti di non vita che si sente vicino a lei, ancora, come se da qualche parte della casa che non può raggiungere a causa del loro accordo, lei si trovi immersa – come lui – coi piedi saldi al pavimento. E allora gli basterebbe stracciare quelle regole, correre di là e abbracciarla. Sentire il suo odore nel naso e rivederla giovane, bella come allora, con la pelle nuda sotto l’accappatoio. Gli sussurrerebbe Adesso basta, adesso ricominciamo. Adesso facciamo che vieni di là e facciamo colazione, come allora, come i nostri vecchi tempi. E ora che siamo anziani anche noi ricominciamo con le nostre abitudini, adesso che sei tornata. Adesso facciamo che ci baciamo con i nostri aliti stanchi e immaginiamo l’amore. Muove un braccio, poi l’altro. Capita di ritornare a muoversi con gli arti intorpiditi. È l’artrite, l’età, il freddo, il desiderio di ritornare al passato. Quello che gli resta in bocca è l’amaro, della vita e della fame, della notte da solo, a digiuno. Sa che di là non c’è nessuno ad aspettarlo, ma nonostante ciò prepara di nuovo il caffè, sempre per due, e in quei cinque minuti di attesa non guarda più fuori, ma guarda dentro, oltre la porta della cucina aperta sul corridoio, aspettandosi qualcosa.

Ruota la tazza intorno al piattino di ceramica, quel suono gli ricorda qualcosa, ma non sa bene cosa.

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