Era
tarda notte quando ti ho incontrato, mentre tornavo a casa con un ombrello
storto e ti ho vista lì sotto la pioggia, immobile, senza paura di bagnarti di
quell’acquazzone che aveva deciso di sfuriare sulla mia testa, proprio nel
momento in cui avevo abbandonato una festa di cui adesso ricordo poco, quasi
nulla. È questo che di te mi ha colpito, che ti prendevi addosso la pioggia
senza preoccupazioni, senza pensare a niente, al raffreddore di domani. Invece
io ero lì a scansare le pozzanghere e a rinvangare colpe su colpe, tutte mie,
per l’incredibile coincidenza delle mie decisioni quotidiane che mi avevano
portato a vivere quel momento, a bagnarmi completamente per un ombrello guasto
e una giacca troppo leggera. La prima immagine che ho di te è proprio questa,
di te nell’acqua o dell’acqua su di te, sui capelli, sui tuoi vestimenti
leggeri, sulle mani e sulla gonna troppo corta e poi le labbra, come
virgole su un viso troppo bianco e spezzato da quel sorriso vivo e lo sguardo
calato chissà dove, come se riuscissi a vedere al di là di quelle gocce, di
quelle case e di quella quiete sgualcita da una pioggia estiva.
“Ti aiuto?” mi hai detto, e la tua mi è
sembrata un’assoluzione, il contrario di tutto, perché una persona in una
situazione peggiore della mia mi stava offrendo una mano e questo lo avrei
immaginato raramente, e meno raramente io stesso avrei fatto quel gesto.
Non hai aspettato che ti rispondessi e hai
raccolto gli occhiali che mi erano caduti per terra, mi hai tirato via con te;
ci siamo fermati entrambi sotto un balcone, mentre dall’alto l’acqua scrosciava
come in uno straordinario Niagara urbano. Siamo rimasti così, occhi contro la
notte, mentre sopra di noi si spegnevano le luci dei grandi palazzi del centro,
poco a poco. Zitti, io e te, per un intero minuto, fino a quando hai detto:
“Mi chiamo Tati”, e mi sono chiesto se
quello fosse davvero un nome e non un bizzarro modo di presentarti agli
sconosciuti, forse solo un vezzeggiativo di quello vero per sembrare più dolce
e speciale, come tutte quelle Maria che dal duemilauno in poi sono diventate
Mary e non si sa perché, forse a causa dei Gemelli Diversi.
“Sono Bartolomeo, piacere.”
“Bartolomeo e basta?”
Ho annuito.
“Ora vado, grazie per gli occhiali.”
“Dove vai?”
“A casa.”
“Per dove?”
“Per di là.”
“Anche io.”
Abbiamo fatto via Mazzini insieme,
precisamente dal civico numero 32 fino alla fine, ricordo che ho sorpassato la
mia casa di un centinaio di numeri e di molti isolati perché la tua compagnia e
il tuo passo certo dietro di me mi rassicurava, come nient’altro, in quel
momento. Avevo bisogno di una sconosciuta che mi camminasse accanto senza che
mi facesse domande, qualcuno che mi sentisse respirare e basta e che si
accertasse che io fossi semplicemente vivo. O sopravvissuto. Avevo bisogno
di qualcuno accanto per non scoppiare a piangere perché l’avrei fatto se fossi
stato da solo, in quella notte e in quella vita. Non sapevo come fare per
lasciarti e ho aspettato che dicessi “Io sono arrivata” per
tirare un sospiro di sollievo e salvarmi da una camminata infinita nella
lunghissima notte sotto i balconi.
“Tu dove abiti?”
“Qui vicino.”
“Magari ci vediamo, ora sai dove abito.”
“Magari.”
Maledetta sia Via Mazzini, Tati, e quella
volta che l’ho ripercorsa per venire da te, due giorni dopo, e maledetta sia
tu, che da quella notte mi hai passeggiato accanto senza chiedere niente,
facendomi sentire al sicuro come nessun’altra persona al mondo: non mi sono più
sentito solo e malato di me stesso da quella volta in cui sei comparsa.
Maledette siano le strade tutte dritte di questa città, che non finiscono mai,
e le notti bianche irrorate di pioggia stanca che cade sulle cose facendole
suonare e poi all’improvviso smette e quello che rimane è un silenzio buio, una
scorza di frutta senza polpa che non so di che gusto riempire, al contrario
tuo, che conosci sempre le parole giuste da dire e quelle da tacere, come in
quella prima notte insieme. Maledetti siano gli appuntamenti che non ho
mancato, le identiche tazze del latte che ci siamo regalati, i vestiti che mi
hai consigliato e le magliette che hai lasciato a casa mia, con la scusa di
usarle per dormire e che invece sono puzzle della tua presenza anche quando non
ci sei. Maledette siano i miei ritardi che mi hanno fatto arrivare sempre dopo
di te ai nostri appuntamenti e che non mi hanno permesso di capire la bellezza
dell’attesa, io che invece giungevo da te con la saliva appallottolata in gola
per le corse in bicicletta e il sudore sottopelle. Maledette siano i tuoi sì a
ogni mio timido invito, ad ogni mio sguardo incuriosito, maledetta sia la tua
spigliata volontà di dire sempre di sì, di non negarmi mai, di non negarti, e
maledetto sia io che annego nel mare delle tue decisioni sempre attente alla
mia sensibilità e alla mia catastrofica predilezione di rovinare sempre tutto;
sei stata acqua a tenermi su, principio archimedeo, abile bagnina dei miei
affogamenti in un nulla di un bicchiere d’acqua.
E ora che ho buttato tutte queste parole
in una lettera, sulla parte posteriore del poster di un concerto di uno dei
tuoi gruppi sconosciuti (che ovviamente sì, Tati, mi piacciono, anche la tua
musica è giusta, esatta, perfetta per me) , posso dirti che adesso basta, Tati:
adesso no.
Preferisco dimenticare tutto, mettere da
parte tutti i tuoi sì e le strade percorse insieme, i parcheggi malmessi in
centro e tutte le volte che ho evitato di guardarti dopo aver fatto quasi
l’amore: quasi, a causa mia, perché tu ovviamente hai detto di sì, fin da
subito, senza remore. È che non ce la faccio, Tati, non ce la faccio a non
volerti: mi tremano le mani a scrivere, insieme alle parole, ancora prima che
io le scriva. È così che adesso vado via, mi prendo una vacanza, da quella
notte e da noi due, per capire se quando tornerò mi dirai ancora di sì o se
sarai arrabbiata per la mia assenza che per nessun motivo ti meriteresti se io
non fossi nevrotico e sempre stanco di me stesso.
Ma lo faccio per il nostro bene, Tati. Lo
faccio perché se mi dici no, per una volta, dovrò impegnarmi seriamente per
prenderti, per riuscire a reggermi sulle gambe e non sprofondare a terra, per
chiederti di poter vivere ogni secondo con te, ombrello che mi salva da ogni
intemperia. Ma in fondo so che se prendessi adesso il telefono e ti comunicassi
che sto partendo per l’altra parte del mondo tu mi diresti che ti va bene, che
mi aspetteresti e che mi scriverai ogni tanto, neanche troppo spesso, per non
farmi venire l’ansia. Mi consiglieresti cosa portare e forse ti preoccuperesti
dei liquidi all’interno della mia valigia, che forse ho sbagliato a misurare.
Ed è questo che mi fa perdere la testa, più di te.
Tu, Tati, abbi pazienza. Aspetta che io
torni da uomo più sicuro, senza solitudine che tenga. Aspetta che io ritorni
con il viso stanco, ma pieno di cose belle da raccontarti, per una volta
aspetta a dirmi di sì. Aspetta che io riempia le mie tasche di storie, per
tirarne fuori una mentre riempiamo i cruciverba tra le lenzuola, che non so mai
cosa rispondere alle definizioni troppo lunghe. Aspettami.
Così quando torno vengo a prenderti in
bicicletta e andiamo in Liguria giù al mare e poi a vivere su una spiaggia ché
magari avrò imparato a suonare la chitarra e a svolgere i crittografati.
Aspettami fin quando Via Mazzini non
finisce, Tati.
Illustrazione di Giordano Poloni
Un uomo che si confessa, soprattutto nei suoi sbagli, nelle mancanze, nelle incrinature, è BELLO. Sotto molti punti di vista. È molto semplice, un uomo così, pure se qualche volta non si vuole, lo si aspetta. Bartolomeo, che bel nome.
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